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primo scambio di prigionieri a como
29/11/2020
Como: la prima città italiana che i soldati italiani rivedono, l’ultima che i soldati austriaci salutano, dopo mesi di prigionia.
29 novembre 1916 mattina presto: un treno ospedale della Croce Rossa Svizzera percorre il breve tratto di binario, posato dal Genio Militare, che collega l’Ospedale Militare, allestito a Sant’Abbondio, alla stazione ferroviaria di Como San Giovanni. Sul treno, diretto in Austria, 183 soldati invalidi dell’esercito austro-ungarico. Il 30 novembre a Como arriva un analogo treno con 300 militari di truppa e 11 ufficiali italiani. Finalmente, dopo lunghi mesi di estenuanti trattative, il primo scambio di prigionieri tra Italia e Austria, il primo dei 18 scambi, che riporteranno in patria 6.000 italiani e 5.200 asburgici, non più in grado di combattere a causa di mutilazioni o gravi malattie. Lungo, difficile e travagliato fu il cammino, che condusse alla firma dell’accordo fra il Regno d’Italia e l’Impero Asburgico, per lo scambio di questi particolari infelici prigionieri. Vi si giunse grazie agli sforzi tenaci delle Croci Rosse Italiana e Austriaca, che collaborarono fra loro per gestire l’assistenza ai prigionieri di guerra, mettendo in pratica i principi che stanno alla base dell’opera umanitaria dei volontari. Insieme riuscirono a superare le diffidenze e gli ostacoli posti dai rispettivi governi, in particolare da quello italiano. L’Austria, in ginocchio a causa del blocco navale nel Mare del Nord e nell’Adriatico, stava vivendo una grave crisi alimentare, che rendeva difficile il regolare nutrimento dei civili, dei soldati e, a maggior ragione, dei prigionieri nemici. Questi ultimi, debilitati dalla fame e dal freddo, che pativano nel campi di prigionia, morivano a migliaia di tubercolosi, di tifo, di malaria.
Le condizioni drammatiche in cui versavano i loro prigionieri, spinsero Francia e Gran Bretagna, a concordare con l’Austria l’invio di treni carichi di cibo e vestiario. Il governo italiano decise invece di non inviare aiuti ai propri soldati, su pressione del Comando Supremo delle Forze Armate, ossessionato dal timore che la notizia che i prigionieri erano ben nutriti e ben vestiti potesse invogliare ad arrendersi al nemico. Purtroppo le pressioni militari, gravide di tragiche conseguenze, condizionarono il governo fino ad agosto 1918, quando finalmente un treno carico di aiuti governativi partì per l’Austria. Fino ad allora ai nostri prigionieri erano pervenuti solo i pacchi inviati dalla Croce Rossa Italiana, dalle famiglie e da altre organizzazioni umanitarie.
L’ospedale di Sant’Abbondio da quel novembre del 1916 venne gestito dalla Croce Rossa di Como, sotto la direzione del Comitato Regionale Lombardo e il costante supporto del Comitato Internazionale di Ginevra. Nel settembre del 1917, un accordo con la Curia Vescovile consentì l’utilizzo dell’intero storico complesso, dove i posti letto aumentarono da 370 a 430. Da quel momento assunse il nome di “Ospedale Concentramento Prigionieri di Guerra Grandi Invalidi Sant’Abbondio”. Qui erano ricoverati e assistiti sia i prigionieri austriaci destinati allo scambio sia i soldati italiani di ritorno dall’Austria, le cui condizioni di salute non permettevano l’immediato rientro alle loro case. Secondo quanto previsto dall’accordo, il trasporto dei prigionieri liberati poteva avvenire unicamente sui Treni Sanitari Svizzeri (T.S.S.) della Croce Rossa Elvetica, lungo il percorso tra Como e Dornbirn, al confine austro-svizzero. Il T.S.S. era composto da 18 carrozze e poteva trasportare 84 barellati e 288 seduti. Il servizio sanitario a bordo era affidato esclusivamente a personale della Croce Rossa Svizzera, coadiuvato da religiose, anch’esse svizzere, addette ai servizi; era comandato dal colonnello Carl Bohny, medico capo della C.R.S., coadiuvato dalla moglie Marie, ispettrice delle infermiere volontarie elvetiche. Su uno di questi treni, il 5 maggio 1918 giunsero a Como anche le tre infermiere volontarie della C.R.I. Maria Andina, Maria Antonietta Clerici e Maria Concetta Chludinska, (si veda al riguardo il post di ottobre). Tutti i 18 treni che arrivarono a Como furono accolti dalla banda militare, dalle autorità e dal grande calore patriottico dai cittadini di Como, che non fecero mai mancare al “Comitato Pro Ristoro”, fondato e animato dalle dame della Croce Rossa, i mezzi per poter distribuire regali e generi di conforto ai rimpatriati. Anche le aziende collaborarono con donazioni in denaro e in merci o praticando grossi sconti sulle forniture. Fra i documenti conservati negli archivi del Comitato di Como, abbiamo rintracciato uno scambio di lettere in proposito con l’industria dolciaria “Lazzaroni” di Saronno, allora in provincia di Como.
Per motivi sanitari, non poterono invece essere accolti calorosamente i ben 32 T.S.S. che in pochi mesi, dal 26 gennaio al 30 ottobre del 1918 portarono a Como oltre 10.000 prigionieri italiani, ammalati di tubercolosi. Anche costoro ebbero comunque una degna accoglienza da parte delle nostre infermiere volontarie, che salivano sul treno per distribuire generi di conforto e parole di solidarietà. Il loro rimpatrio fu il frutto di un altro accordo fortemente voluto dalle due Croci Rosse, che prevedeva il rimpatrio immediato di tutti i tubercolotici, anche allo stato iniziale, senza scambio, in quanto la malattia era praticamente inesistente nei campi di prigionia in Italia. Sui pannelli della sala dedicata alla prima guerra mondiale nel piccolo museo della C.R.I. comasca, annesso al Museo dei Rifugi Antiaerei di Como (MURAC), sono esposti documenti e altre notizie riguardanti lo scambio dei prigionieri invalidi e la vicenda delle tre infermiere volontarie.
A chi volesse approfondire la conoscenza dell’infelice condizione dei prigionieri italiani, consigliamo la lettura del recentissimo volume “I prigionieri di guerra italiani negli Imperi centrali e la funzione di tutela della Croce Rossa Italiana” della collana “Sociologia e storia della Croce Rossa”. Franco Angeli Editore – Milano.
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